Passano i secoli e l’apocalisse ha sempre meno rilevanza. Muoio io, muore tutto. Ma quale specie? Ma quale umanità? Il romantico al più teme la fine della coppia, lo scemo della patria, qualche politico sognatore pensa alla comunità. Per tutti gli altri “muoio io, muore tutto”.
In generale ha senso indagare la coincidenza fra lo spegnimento dell’occhio che guarda e lo spegnimento di tutto il potenziale vedibile. Non è forse questo il senso dell’albero che cade nella foresta e non fa rumore perché nessuno lo sente?
Al centro del discorso c’è il rapporto fra soggetto e oggetto, come sempre. Si tratta dell’ovvietà, a lungo occultata, per cui entrambi siano artefici retorici, prodotti della preesistente relazione. C’è l’atto del vedere, poi ci sono vedente e veduto.
Morto il vedente, morto il veduto, in quanto veduto. Gli sopravvive il disordine della realtà fisica, che fino a quando non viene inquadrato in spazio, tempo e una manciata di categorie sensibili e intellettuali, non è, in quanto non è concepibile.
Tanto apparire, tanto essere, direbbe qualcuno.
E con questo in realtà non legittimiamo ma togliamo di mezzo le assurde tesi di quei fulminati che hanno visto Matrix (e frainteso Platone). La realtà è, senza margine di dubbio, perché la nominiamo e perché ogni giorno riprendiamo da dove avevamo salvato il giorno prima. Se anche tutto fosse fatto al computer sarebbe completamente irrilevante.
Morto io, morto il computer.
L’apocalisse perde presa perché non serve più. L’ecoansia, ammesso che esista, deve la sua esistenza solo al fatto che l’orizzonte della catastrofe è entrato nei confini della vita di un essere umano attualmente vivo. Ovvero, potremmo vederlo anche noi. Non i figli, non i nipoti. Perché anche per gli ecoansiosi: morto io, morti i figli, morti i nipoti.
Magari ne riparliamo